Sabato 15 giugno alle 22:30 il Piotta sarà protagonista a Villa Ada Festival a ingresso libero. La data romana del “Dieci e l’Ode” tour dell’artista, al secolo Tommaso Zanello, sarà l’unica ad avere due appuntamenti in più per ricordare il fratello maggiore Fabio scomparso nel 2022. Il concerto attraversa i dieci album in studio e più di venticinque anni di musica del rapper con particolare enfasi sull’ultimo disco “‘Na notte infame” e su “Ode Romana” dedicata a Fabio, il “Professore”, apprezzato scrittore e saggista.

Ha scritto un album e un libro con e su tuo fratello. Che tipo di rapporto avevi con lui?

«Un rapporto sicuramente bello. Non abbiamo mai avuto motivo di discussione, complici dieci anni di differenza. Lui arrivava sempre prima di me nel fare le esperienze e potevamo avere un confronto umano e culturale perché avevamo delle frequentazioni e delle passioni vicine nel campo creativo, però lui si concentrava di più sulla scrittura e io più sulla musica. Ci accomunava quell’elemento di curiosità reciproca nel rapportarsi col resto dell’umanità, nel conoscerla e poi scriverne: io in rima, lui in prosa». 

Quali erano le differenze tra di voi?

«L’essere cresciuti in anni così diversi, come la sua adolescenza negli anni Settanta di piombo rispetto agli anni Ottanta, hanno determinato delle differenze, che non so sinceramente se siano solo caratteriali o esperienziali. Le nostre vedute politiche erano molto vicine. Tuttavia, la visione di Fabio era più intensamente attiva della mia avendo attraversato un periodo drammatico e violento della storia italiana, che si respirava anche nei nostri quartieri, tra l’altro anche piuttosto borghesi. Io, invece, ho intrapreso un percorso politico molto più pacifico e di maggior confronto». 

In che quartiere vivevate?

«Il nostro quartiere era Trieste-Salario. Mio fratello e io dormivamo a Conca d’Oro ma poi ogni mattina andavamo da nostra nonna a Piazza Regina Margherita. Tutto il nostro imprinting adolescenziale è stato tra questa piazza, via XX Settembre, viale Giulio Cesare, Villa Paganini, Villa Torlonia, Villa Ada. Ora il Nomentano è un quartiere borghese ma allora non lo era perché il tessuto di provenienza era molto più proletario. Quando nel 1934 arrivarono mia nonna con mio nonno, fornaio, dal Nord (Veneto e Friuli), nel quartiere c’era la birra Peroni, la fabbrica Gentilini e molti forni. Gli operai erano mescolati con i colletti bianchi del Ventennio fascista per la vicinanza di Villa Torlonia (dove abitava un tempo Mussolini, ndr)».

In che modo gli anni di piombo hanno influenzato Fabio?

«Sia lui che la sua generazione sono rimasti inevitabilmente colpiti, chi fisicamente, chi moralmente, da un periodo che per loro sembrava normale, dato che c’era stato prima il Sessantotto. Praticamente, era una guerra civile per le vie della città, ogni volta che si usciva di casa, si rischiava oggettivamente di non tornare sani e salvi. Per la mia generazione arrivata dopo tutto ciò sembrava un qualcosa di fortemente anomalo rispetto a una vita quotidiana molto più serena». 

Che cosa amava dell’Asia che non ritrovava in Europa?

«Credo che la ricerca dell’Oriente e della spiritualità orientale sia stato anche frutto di tutti quegli anni vissuti nella ferocia, un passaggio a un qualcosa di più etereo e intangibile, che, però, in qualche modo rappresentava ‘un altro’ e ‘un alto’. Un qualcosa che può dare un senso a un intero percorso di vita. E da lì la fascinazione per la filosofia, per queste culture, e lo studio come ricercatore, e poi la pubblicazione di circa venti libri, di cui più della metà sulle filosofie orientali (dal buddismo al taoismo, dal confucianesimo all’induismo passando a vicende più politiche come il Tibet)».

Come ha fatto a condensare dieci album in un solo tour?

«Lo spettacolo dura due ore e un quarto, è veramente tanto di questi tempi ma, secondo me, è giusto.

Passano in maniera molto piacevole perché la narrazione di questo ormai lungo percorso musicale di undici album, cioè ‘Dieci e L’Ode’, praticamente fa sì che sia diviso in tre atti, come una pièce teatrale. Il primo è quello più legato a ‘Na Notte Infame’ e ‘Corso Trieste’, il secondo atto porta in scena la parte un po’ più rap e aggressiva dei miei primissimi esordi, quando io e gli amici del Colle Der Fomento abbiamo avuto questa idea di inventarci il rap in slang romano, per cercare di portarlo sulla bocca di tutti. Il terzo è quello che poi è finito sulla bocca di tutti, cioè con i ‘superclassiconi’, i miei pezzi più solari. Si comincia col buio e si finisce con la luce».