Fabio Concato è stato intervistato su La Stampa in occasione del suo concerto (totalmente acustico) al Teatro Colosseo. Il cantautore milanese ha raccontato che le due ore di in cui si esibisce sono quelle in cui si sente ancora più vero che mai.
«Forse adesso soffro un pochino di più gli spostamenti, ma mi diverto ancora: queste sono le due ore in cui sono più autentico. Non ho maschere, solo la mia voce».
Per lui, dice Concato, la musica è stata quasi una sorta di autoanalisi.
«Cerco di essere rassicurante anche quando parlo delle mie fragilità, la musica è stata per me sempre una sorta di autoanalisi. La musica passa prima dal cuore e solo dopo arriva alla testa. Io sono anche malinconico, nostalgico, triste… e non si vive bene. Ne parlo per far sentire a chi mi ascolta che sono come loro, che non sono così speciale. Senza mai però abbandonare l’ironia».
È corretto definire le sue canzoni poesie? Concato:
«Vogliamo chiamarla poesia popolare? Mi lusinga, ma il poeta fa un altro mestiere molto più impegnativo ed
economicamente meno gratificante. C’è che tra noi fa poesia, penso a Guccini, Vecchioni, Dalla, il primo Pino
Daniele… ma i poeti per me restano Pasolini, Fortini, Montale, quella gente lì».
Concato confessa che ci sono alcune canzoni che non vorrebbe più cantare, ma che il pubblico continua a chiedergli ai concerti.
«Ce ne sono alcune che non posso fare a meno di eseguire o mi aspettano fuori. È bello che piacciano a generazioni diverse. Vi confesso che non ce la facevo più a cantare “Domenica bestiale”, vai poi a spiegare che avevi bisogno di disintossicarti. Il pubblico non lo capisce ed è giusto che sia così. Quest’anno compie 41 anni e ho capito che ha tutti gli ingredienti per essere una canzone popolare di successo. Sarebbe bello che chi oggi è in classifica venisse cantato tra quarant’anni, ma non credo che avverrà e mi dispiace molto».
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