Bob Marley, il Re del Reggae, nonché una delle figure più iconiche del ventesimo secolo, ci lasciava l’11 maggio 1981. Come molti già sapranno, la morte di Marley fu molto particolare, contraddistinta da una tragica fatalità e legata anche alla cultura religiosa rastafari. In occasione dell’uscita del biopic a lui dedicato, Bob Marley – One Love, in arrivo al cinema il 22 febbraio con Eagle Pictures, ripercorriamo i suoi ultimi anni.
Il successo di Bob Marley and The Wailers
Cresciuto con la musica fin da giovane, Bob Marley creò il gruppo musicale reggae Bob Marley and the Wailers nel 1974, dopo che Peter Tosh e Bunny Wailer avevano lasciato il precedente gruppo, già chiamato The Wailers. L’esodo di Bob Marley alla testa della gente di Jah inizia grazie al fiuto di Chris Blackwell, fondatore della Island Records, principale esportatore di reggae nel mondo. Si trattava di veicolare il reggae dei Wailers fuori dalla Giamaica: per fare questo, si pensò di “occidentalizzare” il suono con l’uso di chitarre e sapori rock quel tanto che basta per non snaturarne il messaggio dato che, soprattutto per i giamaicani, il reggae è uno stile che vuole condurre alla liberazione del corpo e dello spirito; è una musica impregnata, almeno per come l’ha concepita Marley, di un profondo misticismo.
Bob Marley & The Wailers continuarono ad espandere il loro successo prima con “Babylon By Bus” (registrazione di un concerto a Parigi), poi con “Survival”. Alla fine degli anni settanta Bob Marley and The Wailers erano la più famosa band della scena musicale mondiale, e infransero i record di vendite discografiche in Europa. Il nuovo album, “Uprising”, entrò in ogni classifica europea.
La morte
Nel luglio 1977, Marley notò una ferita nell’alluce destro, ma non gli diede peso, pensando di essersela procurata in un incidente durante una partita di calcio, sport che amava tantissimo e che praticava a livello amatoriale, appena ne aveva la possibilità. Successivamente, sempre durante un’altra partita, l’unghia dell’alluce si staccò e a quel punto il cantante decise di farsi controllare. La diagnosi fu rapida, quanto terribile: melanoma maligno che cresceva sotto l’unghia dell’alluce.
Al cantante fu proposta una cura oppure l’amputazione del dito del piede, che gli avrebbe causato certo dei fastidi ma non sarebbe stata ovviamente letale. Secondo la religione rastafari, così chiamata in onore di Hailé Selassié (Ras Tafari), ultimo imperatore d’Etiopia e unico sovrano indipendente d’Africa, il corpo era un dono divino e non poteva essere corrotto da cure artificiali. Bob Marley, fedele indefesso del credo, decise di non accettare cure per il male che aveva scoperto, limitandosi a tagliare solo il letto dell’unghia.
Il cancro, nel frattempo, si stava diffondendo nel suo corpo, ma Marley riuscì comunque a concludere il tour estivo in Europa, con risultati positivi, tra cui il memorabile concerto tenuto a Milano dove canta davanti a 100.000 persone, il 27 giugno 1980.
L’anno dopo le sue condizioni erano troppo peggiorate. Nell’ultimo disperato tentativo di salvargli la vita, Bob fu trasportato in un centro di trattamento in Germania. Nello stesso ospedale tedesco Bob passò il suo trentaseiesimo compleanno. Tre mesi dopo, l’11 maggio 1981, Bob morì in un ospedale di Miami.
L’ultima foto
Ecco Bob Marley in una delle sue ultime foto in vita, con i dreadlocks tagliati e il volto segnato dalla malattia, 1981.
Redemption Song, una delle canzoni più emotivamente e ideologicamente significative della carriera di Bob Marley, fu scritta quando il cantante sapeva già di andare incontro alla morte. Le parole “emancipate yourself from mental slavery, none but ourselves can free our mind” sono un testamento da lui lasciato al mondo.
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