Uscirà il 30 maggio al cinema il nuovo film diretto e prodotto da Luca Barbareschi, The Penitent, tratto da una sceneggiatura di David Mamet e incentrato sui dilemmi morali di uno psichiatra ebreo che assiste alla distruzione della propria carriera e della vita privata. Barbareschi, 67 anni, attore, regista, produttore, ex onorevole, si è raccontato in un’intervista al Corriere parlando così della sua infanzia:
«Mamma era amica di Gustavo Rol, mi portava sempre da una veggente a Torino, quelle poche volte che l’ho vista. Diceva che facevo muovere il tavolino, che avevo capacità medianiche. Ma io volevo le coccole, non fare il mago Zurlì. Mi rispondeva: “Leggi Incompreso, invece di frignare”».
La abbandonò a 6 anni «Scusa, mi sono stufata».
«Si era innamorata di un altro e prese con sé mia sorella. Spiritosa però, mi regalò Cent’anni di solitudine. Da allora in ogni libro cerco di capire cosa le sia passato per la testa per mollarmi così, io non potrei mai, i miei figli piccoli li bacio e li ribacio, non sopporterei l’idea di non rivederli».
Un trauma. «Un dolore spaventoso. Papà era ingegnere per la Edison, sempre lontano, di base a Beirut, quando tornava mi raccontava balle tremende, che aveva combattuto a mani nude con i coccodrilli. Sarà perché beveva whisky e cibalgina, aveva dolori terribili. Vivevo insieme a una tata, una zia gobba e una con l’anca sbilenca, zitelle, con cui ho riso tantissimo, era una famiglia di matti. Quando ci trasferimmo a Milano, in via Rossetti, avevo una governante sarda, Gina, che mi chiamava “cocco” e mi portava al cinema, io mi sedevo davanti e lei dietro, a pomiciare con il fidanzato».
Da piccolo non cresceva. «A 14 anni ero un tappo, 1 metro e 45, i compagni di classe erano già alti e con la barba, io con la vocina e senza un pelo. Di colpo mi venne un piede 46, sembravo Scarpantibus. Poi in pochi mesi arrivai a 1 metro e 87, con un nasone che non finiva più. A 16 ero una belva, facevo pugilato, pieno di rabbia, finivo sempre in qualche rissa».
A 18 ebbe una lite furibonda con suo padre. Se ne andò di casa gridandogli: «Spero che tu muoia». «E lui mi rispose: “Anch’io spero che tu muoia”. Non ci siamo parlati per cinque anni. Me ne andai in America e giurai che sarei diventato più ricco di lui. Quando firmai il primo contratto con Berlusconi, da 2 miliardi di lire, lui alzò le spalle: “Bene. E poi?”. Aveva ragione. I soldi non sono mai stati un metro di paragone. Era un grande papà».
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