Neffa è stato intervistato da Rolling Stones dove ha parlato dei suoi cambiamenti musicali avvenuti nel corso degli anni. Quello più eclatante forse è avvenuto nei primi anni 2000 dove passò dal rap alla musica pop-soul quando uscì uno dei suoi singoli più famosi: Io e la mia Signorina. Ecco un piccolo estratto dell’intervista.
Ricordo, però, una tua intervista dei tempi de La mia signorina in cui dicevi che il passaggio dal rap alla musica pop-soul era anche dovuto al fatto che la scena hip hop non comunicava con l’esterno e che tu volevi arrivare a tutti. Raccontavi un episodio in particolare: eri in spiaggia, una ragazza cominciava a canticchiare una canzone, e tu ti ritrovavi a pensare «quanto vorrei che quella canzone fosse la mia»…
Ricordo di averlo detto, come ricordo perfettamente quella bella giornata al mare, ma la questione è un po’ diversa. Le considerazioni sui numeri, come ogni essere umano, le ho sempre fatte anche io; nessuna questione numerica, però, ha mai potuto battere la voglia di esprimermi. Ho sempre pensato che quello che la musica mi dava era più importante di qualsiasi altra cosa, e non l’ho mai venduta. Mi sarebbe convenuto fare ancora l’hip hop, ma non ci ho pensato un attimo a cambiare. Nei primi anni ’00 sono passato da essere uno dei king del rap a essere uno sguattero nella cucina dei cantanti: che convenienza c’era in questo?
Hai sempre vissuto la musica in maniera molto intensa, attraversando moltissimi cambiamenti, e non sempre sei stato capito subito. Credi che verrai capito adesso?
Per la maggior parte degli artisti la problematica degli odiatori è una questione relativamente recente, hanno cominciato ad affrontarla con la diffusione dei social. Io sono stato uno dei primi paladini a immolarmi per la causa (ride). Ricordo che nel 2001, quando ero appena uscito con La mia signorina, dovevamo fare una chat per Top Girl, una rivista per ragazzine: io non avevo mai fatto una chat con i fan in vita mia, perciò mi sono seduto davanti al computer e ho aspettato. Il primo messaggio che mi è arrivato diceva che dovevo morire. Diciamo che questi ultimi vent’anni li ho passati sperando di fare capire alle persone che il mio discorso nei confronti della musica era d’amore, di creatività e di onestà. Avrei potuto rifare altre sei volte Aspettando il sole chiamandola in altri modi, e magari a tutti gli altri sarebbe andata benissimo così, ma a me no. A un certo punto, a furia di distribuire abbracci e ricevere in cambio schiaffi – non sempre, ma per come sono fatto tendo ad accorgermi più degli schiaffi – mi sono detto: se non è strettamente necessario, perché devo condividere le mie canzoni con il mondo? Anche per questo, negli ultimi anni ho fatto uscire tendenzialmente poco.
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