Nino D’Angelo si è raccontato in una nuova intervista a Il Corriere nella quale ha parlato del suo storico caschetto biondo. «Dicevano: bella voce, ma non tieni il fisico. Il parrucchiere del rione, Enzo, mi fece un look ossigenato. Mi sentivo curioso, ma divenne l’emblema del mio personaggio».
Nel 1976 il primo disco. Con la colletta di famiglia.
«Diedi 500mila lire al produttore, che morì il giorno dopo. Pensai a un “pacco”, invece era vero. Mia madre e mio suocero s’indebitarono per rifinanziarmi. Per risparmiare, mammà faceva la colla con acqua e farina, poi attaccavamo le copertine ai dischi e li andavo a vendere, fingendomi il fratello di quello in foto. Un successo».
Anche il suo murale nasce da una colletta. Il popolo la sostiene?
«Io sono il frutto di quelli che non contano. Talmente tanti sulla terra, che riescono a costruire fenomeni come Nino D’Angelo. È un’opera di Jorit, stesso street artist di Maradona».
Con il napoletano d’Argentina fu subito amicizia?
«Quando Diego arrivò, lesse sui muri: “Napoli tre cose tene belle: Maradona, Nino D’Angelo, ‘e sfugliatelle”. Volle conoscermi e ci riconoscemmo, uniti dai racconti di fame. Amava i brani di Sergio Bruni. Gli cantavo Carmela anche quando stava a Dubai. Gli dedicherò Campio’ nel suo stadio, un extra al tema anni 80».
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