“Non Ci resta che Piangere” è uno dei capolavori del nostro cinema.
Nel film Saverio e Mario, rispettivamente Roberto Benigni e Massimo Troisi, lavorano nella stessa scuola, l’uno come insegnante e l’altro come bidello. Si perdono in macchina nelle campagne toscane, ed è l’estate 1984. Decidono di prendere una strada secondaria e, in seguito a un temporale, si ritrovano nel 1492. Catapultati indietro di quasi 5 secoli. Dopo lo smarrimento iniziale, i due si adeguano alla nuova esperienza, inserendosi nella vita di paese. Da Frittole con furore, immaginario borgo toscano, giungono le loro avventure e tanto umorismo.
La famosissima scena della dogana, in cui l’ufficiale richiede numerose volte il pagamento di “un fiorino!” ai due protagonisti, è ricordata come una delle più divertenti del nostro cinema. Questo spezzone è stato girato numerose volte perché tutti non riuscivano a rimanere seri e ridevano come pazzi. Per questo, alla fine, fu tenuta buona una scena dove i due attori, soprattutto Benigni, ridono a crepapelle.
Sul set, ricorda Benigni, «c’erano quelle improvvisazioni che nascono però da un lungo lavoro, che sembrano improvvisazioni, ma quando, diciamo, ci si vuole bene, che si sta insieme, tutto tende a quella cosa là, allora era tutto una costruzione, ma sempre sull’allegria».
Un fenomeno, oggi rarissimo, scatenato dal film furono i tormentoni. La scena della dogana – «un fiorino» – la conoscevano a memoria anche i bambini. E poi, la partita a scopa con Leonardo, la santa messa con Vitellozzo (Carlo Monni) con lo sguardo «che gli devi fa’ capire che hai capito…», e la straordinaria lettera a Savonarola, sulla scia di Totò e Peppino. «Appena poi il film è uscito, improvvisamente, per strada, sono diventati proverbiali una quindicina di modi di dire del film, inaspettati. Ci arrivavano lettere come quella a Savonarola! E pensare – sorride Benigni – che fu completamente improvvisata. Sono quelle scintille divine, diciamo così, di gioia».
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