Arnold Schwarzenegger, lo sappiamo, ha fatto dell’America la sua patria acquisita. Nato in un piccolo comune dell’Austria, si trasferì negli Stati Uniti all’età di 21 anni, nel 1968. Alla luce dei terribili avvenimenti che stanno accadendo sul territorio americano, tra cui la morte di George Floyd soffocato per opera di un poliziotto e le conseguenti violente proteste del popolo afroamericano, Schwarzenegger ha scritto una serie di riflessioni a mo’ di lunga ‘lettera aperta’ all’America, pubblicata sulle pagine di The Atlantic.

Ecco le sue parole, in parte sintetizzate e tradotte. 

Sono emigrato in America nel 1968. Avevo sognato di venire qui dal momento in cui vidi le immagini degli Stati Uniti alle elementari. Per me, le foto e i filmati dei grattacieli torreggianti, ponti enormi, autostrade larghe e Hollywood rappresentavano una terra di opportunità senza limiti. Ho deciso che questo era il posto a cui appartenevo.

L’America era nel bel mezzo della corsa verso la conquista della luna, e alla fine del 1968 abbiamo assistito al lancio di coraggiosi astronauti nel primo volo dell’Apollo. La loro missione sembrava dimostrare che questo era davvero un Paese senza limiti.

Ma nel 1968, come nuovo immigrato, rimasi scioccato nell’apprendere che il paese che avevo sognato fin dall’infanzia non era perfetto. E non vi era nemmeno vicino.

[…]

Sabato scorso [il 30 maggio], abbiamo osservato dei coraggiosi astronauti lanciarsi di nuovo nello spazio. E ancora una volta, le nostre strade sono piene di manifestanti che combattono contro un sistema che li limita.

Gli ultimi giorni ci hanno fatto ricordare che l’America non è perfetta. Continuo a credere che siamo il più grande Paese del mondo, ma siamo al meglio quando ci guardiamo allo specchio, affrontiamo i nostri demoni e li scacciamo per diventare ogni giorno un po’ migliori.

I manifestanti che vediamo per le strade non odiano l’America. Ci chiedono di essere migliori. Lo chiedono a nome dei nostri concittadini americani che non hanno più voce in capitolo: Ahmaud Arbery, Breonna Taylor, George Floyd e molti altri.

Quando ho visto l’orribile video della morte di Floyd, la prima cosa a cui ho pensato è stato il video di Eric Garner che perde la vita per aver venduto sigarette. Non si trattava di pericolosi criminali, ma questi incidenti non sono così rari come dovrebbero essere.

Questa cosa deve finire. Dobbiamo tutti alzarci in piedi. Ci vorrà una migliore formazione per gli agenti di polizia. Loro, che sono bravi, dovranno spingere per il cambiamento. Questo non è un attacco ai poliziotti. È una critica a un sistema rotto. Mio padre era un agente di polizia. Ho sempre tifato per i poliziotti. Ma si può essere fan di qualcosa e vedere anche il male che c’è dentro. Ed è chiaro che qua c’è qualcosa di molto sbagliato.

[…] Per questo che la gente oggi marcia. È nostro dovere ascoltarli. Non possiamo ignorare i problemi della disuguaglianza in questo Paese. Nessuno può affermare che i bambini di colore dei centri urbani ricevono un’educazione pari a quella che ricevono i bambini delle periferie. Nessuno può negare che le minoranze si trovino dalla parte sbagliata del nostro sistema giudiziario in numero disuguale. Nessuno con un cuore può assistere a questi omicidi e non provare profonda tristezza, rabbia e persino senso di colpa.

È molto facile vedere gli edifici in fiamme e le imprese distrutte e distogliere lo sguardo dal significato delle proteste, o non considerarle del tutto. Credetemi, odio le rivolte come chiunque altro, e la violenza deve cessare adesso. Gli incendi non hanno portato cambiamenti significativi dopo Watts o il 1968 o i disordini del 1992, e non porteranno cambiamenti oggi. Questi vandali non fanno altro che distrarre dall’importante messaggio delle proteste.

Ma noi, in quanto americani, non possiamo permettere che il fumo oscuri i reali problemi che dobbiamo affrontare. Non è un lavoro facile, guardarsi allo specchio. Come americani patriottici, vogliamo credere che la nostra nazione sia al di là del razzismo. Come individui, non vogliamo credere di nascondere sottili stereotipi e pregiudizi. Ma è un lavoro importante, perché la grandezza dell’America non viene dallo status quo, ma dalla nostra costante lotta per mantenere la nostra promessa. Questa, per me, non è una questione politica. È una questione patriottica. 

Quando mi trasferii qui nel 1968, pensavo di venire nel più grande paese del mondo. Infatti era così. All’epoca non sapevo molto sulle disuguaglianze della nazione, ma da allora ho imparato molto. Questa conoscenza non mi fa amare meno l’America, ma mi fa venire ancora più voglia di lottare per il nostro Paese. Ho cercato di fare la mia piccola parte, sostenendo i programmi di doposcuola nei nostri centri urbani e, quando ero governatore, risolvendo una causa di lunga data, per garantire che tutti gli studenti avessero insegnanti qualificati, libri di testo e scuole sicure, pulite e funzionali. Ma oggi so che tutti noi possiamo fare di più.

Il patriottismo non è solo l’amore cieco per la nostra bandiera. È il lavoro che facciamo per migliorare il nostro Paese per ogni americano. Voglio che le mille opportunità che mi hanno portato qui nel 1968 esistano per ogni americano, indipendentemente dal colore della pelle.

E la prossima volta che manderemo un razzo nello spazio, mostrando al mondo che possiamo volare oltre i limiti della nostra atmosfera, voglio che ogni ragazzo di una scuola del centro città lo veda come simbolo della possibilità che gli si prospetta, invece che come simbolo di un’America che non gli appartiene.

Possiamo fare di meglio. Dobbiamo essere disposti ad ascoltare, ad imparare, a guardarci allo specchio e vedere che nessuno di noi è perfetto. Dobbiamo essere disposti a vederci come americani, e non come nemici. Dobbiamo essere disposti a fare delle dure riforme senza preoccuparci di stupide battute di partito.

Io sono pronto ad ascoltare e a lavorare per rendere l’America migliore ogni giorno. E voi lo siete?